Non era un mondo idilliaco, il Regno delle Due Sicilie. Non mancavano le tensioni fra chi viveva in armonia con le tradizioni e le regole della comunità e chi cercava di procurarsi guadagni illeciti in danno della gente onesta. Nonostante l’opera incessante dei Re, schierati in difesa del loro popolo, speculatori, parassiti, possidenti egoisti, sfruttatori del lavoro altrui seminavano spesso ingiustizia e risentimento in una terra la cui bellezza incomparabile sembrava fatta apposta per garantire gioia di vivere e prosperità.
Ciò non ostante, si riusciva per lo più a vivere in modo dignitoso secondo la propria fede e i propri costumi, guardando con fondata fiducia a un futuro migliore, che le oculate, ma lungimiranti iniziative dei Re Borbone stavano preparando.
Poi, d’improvviso, l’invasione di una banda di avventurieri travestiti da liberatori, foraggiata e protetta da potenze straniere e sette anticattoliche, con l’aiuto della criminalità locale e dei ceti borghesi parassitari, semina ovunque morte e scompiglio, preparando l’ingresso di un esercito di occupazione, quello piemontese, animato da volontà predatoria, da arroganza verso i popoli napolitani e siciliani e da disprezzo verso la fede delle popolazioni.
Soffocata, grazie alla corruzione e al tradimento dei capi, la resistenza dell’esercito, solo il popolo rimane a fronteggiare gli invasori.
Infatti nelle società tradizionali, quando la difesa della Patria lo richiede, ciascun membro della comunità diviene soldato e collabora alla lotta secondo le proprie attitudini e possibilità.
Comincia, così, un conflitto sanguinoso, durato almeno dieci anni, contro un’armata di almeno centoventimila uomini calata dal Piemonte, che si avvale all’incirca di altri centomila tra collaborazionisti, guardie nazionali, cacciatori di taglie e mercenari stranieri.
Uomini e donne salgono sui monti per difendere la propria fede, il proprio re, la propria terra, la propria famiglia, la propria dignità. Tornano al bosco sacro, luogo della religiosità naturale, della tradizione, alla montagna come simbolo di libertà. Non a caso i pastori rappresentano le truppe scelte di questa ribellione, loro che hanno per tetto un cielo di stelle.
Il brigante rifiuta di piegarsi a una realtà che gli viene imposta e che sente estranea. La sua è una partecipazione emotiva, in armonia con l’ordine naturale. Non appartiene alla ragion conveniente. Sa amare, sa sognare, sa combattere.
Così come le donne, le brigantesse, anch’esse protagoniste in una guerra lunga e spietata, di cui ancora oggi non si percepiscono bene le dimensioni. Sappiamo che nei momenti oscuri le donne del popolo, e le donne del Sud in particolare, non hanno mai esitato a gettare l’uncinetto o il mestolo per impugnare il coltello o il fucile, quando la legge della coscienza glielo imponeva.
La loro funzione si è voluta limitare a quella di semplici compagne e amanti dei guerriglieri, chiamate dispregiativamente drude, donnacce. Il conformismo liberale e borghese, intriso di maschilismo, impose questa lettura deviante di un fenomeno che smentiva la vulgata dominante sul ruolo delle donne nel Sud.
Tutte le tante protagoniste di quell’epica stagione di lotta, pur nella mutevolezza della sorte e nelle debolezza dell’umana natura, ci sono care, perché anche la maestosa potenza dell’universo femminile, che genera e alimenta la vita nei tempi di pace e scatena la sua furia primordiale di fronte alle forze che minacciano la vita della famiglia, ben rappresenta lo spirito indomito della nostra Patria comune.
Ne parleremo a Giugliano, sabato 16 giugno, per unirci idealmente a loro nello stesso, grande sogno di libertà.